Venti immigrati. Otto nazionalità diverse. Una barca alla deriva, a motore spento. Il silenzio è rotto solo dal sibilo del vento e dall'acqua che scivola sulla carena. Nei loro occhi si leggono urla silenziose di speranze soffocate da un sottile velo di timore del domani.
Lo scafo, sospinto dalle onde, avanza aprendo un varco nel mare come un aratro nel campo. Entità impalpabili come i sogni, le immaginazioni, gli intuiti, incombono sul mare anch'esso sogno. Eccoli lì. Mare e uomini e sole, nient'altro. Tutti avvolti in un unico respiro. Non c'è più acqua da bere e Ousmane sta male. Ha i brividi, suda, è freddo. Sta morendo. Bisogna decidere se tenerlo o buttarlo giù. Bisogna decidere, e farlo in fretta, se dargli la sua razione d'acqua da bere o lasciarlo spegnere. Era un amico Ousmane. Ma ormai è spacciato e la sua acqua da bere può servire a tutti gli altri. Bisogna decidere. Una decisione che pesa quanto un macigno.
È questo il nodo tragico di "goor", docu-fiction realizzato nel 2009 a Catania dal regista Alessandro De Filippo, la cui proiezione è prevista domenica 19 febbraio alla libreria Saltatempo, nell'ambito della rassegna cinematografica "Sulla stessa barca" sul tema dell'immigrazione e dell'integrazione promosso da Fabbrica di Nichi Ragusa, Fitzcarraldo Cineclub, Nemoprofeta, in collaborazione con Amnesty International Gruppo 228 Ragusa, Bottega dei Popoli, Centro Educazione alla Pace, El Maghreb, Emergency, Il Clandestino, Pax Christi.
"goor" è il fiore all'occhiello di la.mu.s.a., acronimo che sta per "laboratorio multimediale di sperimentazione audiovisiva", un laboratorio permanente interno alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Catania che dà la possibilità agli studenti volenterosi e motivati di lavorare con le immagini e la comunicazione visiva, misurandosi più sul piano pratico che non sulla mera teoria.
"goor" è un docu-film che, nato da un più ampio progetto sull'immigrazione e per l'integrazione, in poco tempo ha fatto il giro dei festival e dei cinema di gran parte dei Paesi europei (ma anche Marzamemi e Roma).
"goor" è un intreccio di emozioni, di religione, di sentimenti, di politica, di etica, di storia e identità in cui approda un tentativo di rappresentazione, il progetto di un film. Un film che però non riesce a raccontare una storia così complicata, un nodo così aggrovigliato e complesso. E si ferma a riflettere. Il film si interrompe e si interroga. Perché ci sono cose che il cinema non sa raccontare. E "goor" vuole essere una riflessione proprio su questa incapacità consapevole.
Ne abbiamo parlato con il regista, Alessandro De Filippo, che oltre ad essere il responsabile di la.mu.s.a. è anche l'artefice del grande entusiasmo che contraddistingue il gruppo di la.mu.s.a. nonché la molla che ha fatto scattare questo progetto di successo.
Che cosa significa "goor" e com'è nato?
Il titolo, "goor", in minuscolo, significa 'uomo' in lingua wolof (Senegal). Ma è un titolo mutevole, perché può trasformarsi in ogni luogo dove viene presentato e proiettato il film: ànthropos (Grecia), mutu (in swahili, Kenya), danai (Vietnam), ren (Cina), homme (Francia), hombre (Spagna), pessoa (Portogallo o Brasile). Il titolo è importante, perché dà identità. È come il nome per una persona. L'idea del film nasce dalla riflessione di Alberto Grifi, regista sperimentale italiano scomparso nel 2007, cui goor è dedicato: "non trovi la giusta forma del racconto perché non hai il diritto di raccontarlo". Poiché le storie di immigrazione appartengono agli immigrati, appare complicato raccontarle dall'esterno. Da qui l'idea di raccontare con loro la loro storia, dando la parola direttamente a loro.
Come è stato possibile realizzare "goor"?
La sua realizzazione è stata possibile grazie ai fondi F.E.I. (Fondi europei per l'integrazione) che la.mu.s.a. si è saputa aggiudicare grazie anche a tutta la partnership di cui era capofila il comune di Catania e con la partecipazione dell'ufficio denominato "Casa dei Popoli", che ha coordinato l'intero progetto. Quest'ultimo ha previsto, oltre alla produzione di un audiovisivo, un momento di formazione preliminare che permettesse agli immigrati di trovare la loro "formula espressiva" per raccontarsi. I partecipanti sono italiani e stranieri, di età compresa tra 16 e 40 anni, che insieme hanno lavorato su una struttura narrativa che riuscisse a produrre una sincera forma di auto-rappresentazione, perché il motto che abbiamo scelto è raccontare e raccontarsi. Al film hanno partecipato 25 stranieri di 8 nazionalità diverse (senegalese, albanese, colombiana, marocchina, cinese, egiziana, keniana, e vietnamita). La sceneggiatura è il frutto di un confronto tra persone diverse, portatrici di culture ed esperienze differenti. Si è così attuato uno scambio culturale non programmato ma che è venuto fuori in maniera naturale.
Un progetto di successo dunque…
… anche se portato avanti con notevoli difficoltà. Non ultime quelle di natura burocratica riguardo ai vincoli per ottenere i finanziamenti. Gli stranieri partecipanti, ad esempio, dovevano essere residenti nel nostro Paese da cinque anni e tutti con un lavoro e permesso di soggiorno. Non è stato facile rispettare tali vincoli. Ma i problemi più notevoli sono stati quelli relativi alla modalità di narrazione che cozzava fortemente con quella che offrono in genere i media. Chi fa comunicazione ha il dovere di raccontare con parole semplici non di semplificare, e tra le due ne corre differenza.
E il cinema è così bello che non può torcersi o spezzettarsi dietro tante spinte e bisogni particolari. Il cinema vuole essere bello. Allora finge, si imbelletta oppure obbedisce alla Società dello Spettacolo. Si offre come intrattenimento. L'ha fatto così tante volte che adesso forse non è più in grado di fare altrimenti. E "goor" vuole essere una riflessione proprio su questa incapacità consapevole, su questa rinuncia colpevole.
Autori, tecnici e attori si chiedono: possiamo raccontare la nostra verità? Possiamo essere sinceri? E come?
Intanto siamo fermi in mezzo al Mediterraneo. In mezzo a quest'infinito panico di sole e di acqua salata. Che è stato il centro del mondo, che è stato il centro della cultura umana. Mare che unisce, ma anche mare che divide.
Articolo di Giuseppe Nativo