Dai cinegiornali liberi di Zavattini ai "videoteppisti" che documentano le lotte contro la globalizzazione. ( Alias n°48 - 9 Dic. 2000 )
....mentre ascoltavo gli interventi di quelli che mi hanno preceduto, mi stavo chiedendo che cos'è che sempre mi chiama in questi luoghi, le tavole rotonde, dove spesso mi sale su un sentimento di insofferenza verso le solite dichiarazioni, ambizioni e smanie produttive che tendono più a riprodurre le cazzate dei film di cassetta piuttosto che a interrogarsi sulla necessità di liquidare quei linguaggi e comportamenti che il mercato produce, ecco... poi pensavo pure che questo è comunque uno di quei luoghi dove si incrociano vite e mestieri che sono o che sarebbero quelli di ridisegnare il futuro del comunicare. Ognuno viene a raccontare qualcosa che è frutto di un lavoro collettivo ma anche di un insieme di solitudini. E mi stavo chiedendo ascoltando gli altri: e io? Che cos'è che ho comunicato durante la mia ormai lunga vita? Per me il cinema è stato un mestiere a cui sono stato costretto da quando ero un ragazzino, per non morire di fame.
Mio padre faceva questo mestiere e pure mia madre e le mie zie che suonavano pianoforte e violini nei cinema quando il cinema era muto... giravamo i titoli dei film americani in una cucina. Oltre alla macchina da presa e al carrello, c'era un tornio, una fresa, perché... durante la guerra le fabbriche erano state bombardate, non c'erano più attrezzature, non si trovavano più i macchinari... bisognava farsi tutto da soli. Ho cominciato a lavorare a cinque anni, e tutto questo... come dire.... mi ha aiutato a costruire alcune certezze, se non altro quella di saper maneggiare al buio la pellicola, far girare un pezzo d'ottone su un tornio e sagomarlo, farlo diventare una filettatura per gli obiettivi... Insomma nessuna vocazione, nessuna chiamata, nessuna missione... Poi, siccome si cresce, a un certo punto ho sentito la necessità di uscire da quella cucina e darmi un'occhiata intorno. Me lo dicevano tutti, bisogna andare a trovare Zavattini! Che era il pronto soccorso del cinema italiano! La presa di coscienza!
Così, frequentando il suo salotto, mentre inseguivo con la Vespa le dive americane per Via Veneto perché facevo il paparazzo o il fotografo dei pittori, di aereoplani o di moda, scoprivo che questo mestiere poteva anche diventare un modo di veder più chiaro là dove gli altri non volevano guardare, instupiditi dal post bomba atomica e infognati nella miseria del boom economico, quando in ogni casa c'era il frigorifero ma vuoto perché a nessuno avanzavano i soldi per comprare da mangiare... quando la Celere di Scelba sparava sui lavoratori che scendevano in piazza perché chiedevano pane e lavoro.... insomma valeva la pena di continuare a fare questo mestiere, purché "il cinema sia capace di cambiare la vita con coraggio, con la lotta appassionata, perché è la vita che dobbiamo costruire...".
Una frase, quasi uno slogan, che quel gran vecchio, Zavattini, ripeteva ossessivamente saltando fino a tardi sui divani e disturbando il vicinato. Una specie di avvertimento per me, un presagio duro come la verità: infatti anni dopo ho capito alcune cose fondamentali della vita proprio in galera, cose che nelle scuole di cinema non si sognerebbero mai di insegnare...
Vabbe', devo fare un passo indietro: negli anni '60 avevo lavorato già parecchio nella sperimentazione cinematografica. Avevo scoperto l'inconscio biologico dello sguardo, il rimosso per rileggere la ontofilogenesi, l'evolversi degli strumenti fisiologici nelle ere planetarie e delle forme cibernetiche, il meraviglioso disordine percettivo e le nuove geografie dei paesaggi interiori, nuove eppure stranamente familiari, che ci regalavano le sostanze psicotrope. Costruivo lenti e specchi da mettere davanti agli obiettivi. Sentivo che bisognava inventare linguaggi nuovi per raccontare il desiderio di trasformare i nostri corpi contro la normalizzazione dello sguardo appaltato dalle macchine da presa e dai film dei divi. Bisognava fare un cinema contro l'uomo messo "al centro dell'universo", o contro il corpo "nobilitato dal lavoro" perché ridotto dai padroni, appunto, a forza lavoro.
Roma era una città eccitante, arrivava il Living Theatre, Carmelo Bene, Grotowski, il Gruppo di Musica Elettronica Viva... gli incontri erano straordinari. Era l'underground. Ma pochi si accorgevano che mentre noi progettavamo una vita nuova ci stavano dando fuoco alla casa. Arrestano Braibanti col quale lavoravo, gli montano addosso un processo per stregoneria, poi su quell'onda puzzolente arrestano un sacco di altra gente fra cui io, con motivazioni deliranti e sessuofobiche. Mettono bombe e dicono che siamo stati noi, buttano Pinelli dalla finestra... La storia è stranota ed è andata avanti parecchio. Anni dopo abbiamo avuto ministri che si cimentavano col teatro di strada! Per fregare i cineoperatori degli altri canali truccavano direttamente la realtà: travestivano i pullotti delle squadre speciali da teppisti capelloni che sparavano sulla gente... su Giorgiana Masi, per esempio. E anche quando li fotografavano con le pistole d'ordinanza fumanti in mano, come le comparse vestite da antichi romani che si dimenticano di togliersi l'orologio, la facevano sempre franca. A che servivano le nostre messe in scena sulla trasformazione del mondo se le loro guittate ci spedivano nelle sale mortuarie e quando ti andava bene qualunque questurino ti poteva sbattere in galera senza nemmeno spiegarti perché? A dispetto del progetto rivoluzionario per cui "sarà la realtà stessa a divenire il luogo della creazione", era lo Stato, il nemico di classe, che rimaneva padrone delle piazze e della nostra vita ributtandoci nel buio della preistoria, mentre noi "artisti" ci baloccavamo con l'impotenza del simbolico e delle metafore. Tutta quella massa di linguaggi che noi pensavamo di trasformare in arte e vita, erano in realtà già usati dal potere per buttarci in galera. Bisognava cominciare a parlare in modo molto semplice e chiaro perchè le bugie massmediatiche erano troppe. Baraghini e Blumir già avevano battuto questa strada con Stampa Alternativa smanovellando col ciclostile. Si portavano ai grandi giornali questi foglietti per smascherare le veline della questura... e bisogna ricordare che all'epoca il mestiere di giornalista consisteva nel passare le veline della questura direttamente in tipografia... quella era l'informazione!
Poi negli anni successivi, all'epoca dei cinegiornali liberi, nel fare controinformazione con la pellicola ci rendemmo conto che i costi enormemente più alti della carta da ciclostile ci costringevano a confrontarci con problemi produttivi decisamente alienanti. Solo quando è arrivato il videoregistratore abbiamo constatato che si poteva aprire una dimensione "liberata" dai costi alti.. Mi spiego: ripensando al tempo in cui non c'era che la pellicola, ci si poteva finalmente render conto che c'è un pensiero nascosto nella testa di ogni cinematografaro pronto a scattare sempre come un incubo ossessivo al momento delle riprese: quando si preme il bottone del motore che fa girare la pellicola, volano via dei biglietti da centomila lire e ci si chiede se quello che si sta filmando vale quei soldi che vengono spesi. Questo succede tanto nelle grandi produzioni che spendono un miliardo all'ora che al povero filmaker indipendente che di soldi ne ha pochi. Questo meccanismo mentale è quello che fa accettare il fatto che l'economia costringa la vita che viene filmata in una dimensione che è appunto quella consentita dal denaro. Allora ecco che la vita reale si comincia a misurare sulla falsariga dell' economia e da quel momento il linguaggio della vita si trasformerà nel linguaggio del denaro che ha la pretesa di dare significato a tutta la vita trasformandola in merce. Usando il videoregistratore abbiamo scoperto che siccome il nastro costava praticamente niente, si potevano aprire degli spazi di libertà: non solo andare a documentare le manganellate della polizia o il poliziotto travestito o insomma tutti gli inganni che avvenivano in piazza senza bisogno di correre di qua e di là a cercare i soldi per la pellicola. Si poteva fare qualcosa di più, è l'esperimento che abbiamo fatto nel '72 con Sarchielli e tanti altri compagni di strada che ormai sta scritto su svariate enciclopedie di cinema, che è questo film "Anna" in cui , diciamo così, questi spazi di libertà che si erano aperti hanno consentito di cambiare completamente la logica cinematografica che esige che il film sia precedentemente scritto, che la lavorazione deve stare in certi binari, eccetera eccetera.
E' esemplare in "Anna"un episodio che ho citato fino alla nausea: un giorno l'elettricista del film, un ragazzo che era emigrato dalla Calabria a Milano, che aveva lavorato alla Bicocca, alla Pirelli, ai tempi degli scioperi selvaggi del '69, che era stato buttato fuori dalla fabbrica perché... allora per paura che gli operai saltassero addosso agli impiegati nella mensa che era comune, la direzione aveva fatto erigere una cancellata tra gli uni e gli altri e lui era tra quelli che avevano saldato i cancelli della mensa mentre gli impiegati degustavano i loro risottini, imprigionandoli praticamente nella fabbrica... va be', questo ragazzo torna verso sud, scende in Toscana, scopre le comuni di hippies, lo spinello, scopre che si poteva fare una vita umanamente più ricca e bella di quella merdosa della fabbrica. L'incontro e gli dico: vieni a fa' l'elettricista da noi così ti diverti! questo fregandosene di rispettare le gerarchie del set cinematografico che è esattamente come una fabbrichetta con in più quel tanto di sacralità imposta perché ci sono pure gli artisti in mezzo, i produttori più su, gli attori un pò più giù, poi una quantità indefinita di leccaculo, poi il direttore della fotografia, alla fine giù nei bassifondi gli elettricisti , i macchinisti e gli attrezzisti, questo ragazzo dunque accende la luce, entra in campo e fa una dichiarazione d'amore a questa ragazzina, Anna, che nel film era l'attrice principale, cioè per essere precisi, quella che fino a quel momento era stata un oggetto d'indagine antropologica. Un'altra produzione lo avrebbe cacciato fuori a calci in culo, e invece questo ha detto delle cose così vere, così belle, così imprevedibili per noi, che ha cambiato il film. Abbiamo buttato la sceneggiatura nel cesso e questo ha cambiato non solo la sua vita ma anche la vita degli altri. Così abbiamo scoperto che una troupe cinematografica poteva anche essere messa insieme non più dal produttore, così come il padrone mette insieme gli operai che non hanno nessun interesse a stare insieme altro che quello di riscuotere il salario a fine mese, ma che invece questa troupe poteva essere formata da un gruppo umano costituito da persone che cominciavano a conoscersi, ad amarsi, a stimarsi... senza chiedere il permesso al regista... insomma avere dei rapporti interpersonali autentici, per cui il film registrava quel tessuto connettivo che è quello che forma il sociale reale. Dopo questa esperienza, questa irruzione proletaria in un salotto borghese, ci sembrava chiaro come, al momento di fare controinformazione, non fosse più tanto importante filmare e contare i pugni chiusi che sfilavano per le strade ricalcando il modello di tutti i film di regime. Mi sembrava che si potesse fare una cosa ben diversa, più importante e necessaria: capire che cosa succedeva nella testa di quei compagni che scendevano in piazza... analizzare e lavorare insieme per il cambiamento dei comportamenti all'interno del progetto rivoluzionario, se era vero che la rivoluzione funzionava o no, se c'erano delle reali tendenze a sciogliere i meccanismi consolidati dal potere al livello delle strutture caratteriali, di sciogliere la famiglia perché i figli diventassero figli di tutti, perché si riuscisse a trasformare la soggettività in una dimensione politica più grande dove insieme alla capacità di lottare si diventasse anche più capaci di amare... e adesso eccoci qua, superstiti di una cultura che sembra lontanissima nel tempo, quasi mitica. Quant'è passato dal cosidetto dopomoro? Più di vent'anni... chi se lo ricorda? Criminalizzazione del dissenso e organizzazione del consenso intorno allo Stato che già si preparava a trasmettere alle nuove generazioni una memoria storica falsificata. I pompieri di regime lavorarono bene, coi giornali e la tv... eroina e galera... ormai potevano stare tutti tranquilli, ragazze e giovanotti spensierati, della generazione successiva a quella dei cattivi, ballavano travolti dalla febbre del sabato sera, le lotte giovanili non c'erano più perché "non c'era più lo sfruttamento." E nemmeno il pensiero critico. Però io che ero rimasto senza lavoro dopo le censure della rai e che mi ero messo a lavorare per una decina d'anni in Sudamerica e in Africa, vedevo che da quando il primo mondo mandava gli aiuti al terzo, questo era sempre più indebitato, sempre più armato, sempre più affamato, sempre più inquinato, sempre più derubato, sempre più malato, spesso più morto. Le forme più evidenti del vecchio sfruttamento sono state occultate esportandole.
Durante gli anni '90, in Sierra Leone, varie giunte militari mandavano in giro bande di bambini fra i 9 e i 12 anni perati con la coca e armati di machete che tagliavano le mani e i piedi della popolazione. In questo clima di terrore le giunte golpiste sono enormemente arricchite svendendoci tutto quello che riuscivano ad arraffare nelle zone minerarie del loro Paese. I diamanti a centomila lire, alla "portata di tutti", venduti dagli imbonitori delle aste notturne per tv, è da laggiù che provenivano. E chi li comprava? Le signore o i loro mariti che fino a un momento prima avevano guardato commossi al telegiornale le disgrazie lacrimose del terzo mondo. Ecco dove sono confluite le classi qui da noi, quelle classi sociali che nessuno trovava più! Come nel mucchio di ferraglie e vetri rotti in un cimitero di automobili riconosci il modello di un'auto che ti era stata cara, mi succede di riconoscere nei telespettatori tutta la gamma di esemplari dell'ex forza lavoro rottamati dal capitalismo in fuga nell'invisibile, riciclati in una nuova ricomposizione di classe direttamente produttiva, composta sopratutto da pensionati, disoccupati... che lavorano senza minimamente sospettarlo, che vengono sfruttati per il semplice fatto che guardano il televisore. Tenendolo acceso, attraverso i meccanismi del controllo della audience che conta i telespettatori, premiano le emittenti tv con l'incremento progressivo delle tariffe pubblicitarie. Più gente c'è a guardare più aumentano le tariffe! Le aziende pubblicizzate ricaricano queste spese sempre più alte sui prezzi delle merci nei supermercati, ed ecco che i telespettatori si trasformano senza saperlo in produttori di plusvalore. Più guardano la tv più aumenta il prezzo del pane. Andiamo forte! Tv e telespettatori sono la merce principale che si produce ormai qui da noi... tempo libero e suoi derivati: tette, culi, quiz, disgrazie degli altri, scorie radioattive, pezzi di scarto di animali putrefatti, acque inquinate, disastri ecologici. Un mondo che vomita e caca dappertutto, perché si è ingozzato di merda fino all'inverosimile. Mi torna in mente la frase del vecchio capo pellerossa che più o meno diceva: quando avrete sporcato tutte le acque e distrutto le praterie, quando avrete venduto tutti gli animali che avrete ucciso e sarete arricchiti, cosa vi mangerete? I soldi?
Vorrei dire qualcosa su quelli del gruppo Video City Virus, ai quali ho chiesto di intervenire a questo convegno perché: uno, il loro lavoro registra una socialità in trasformazione che produce i propri linguaggi tanto come soggetto politico che come rappresentazione mediatica di sé, nei momenti di lotta. Due, perché l'attività di questo gruppo si sviluppa dove la vecchia controinformazione si fermava: la distribuzione, oggi resa possibile dalle reti telematiche. Tre, perché spinte e modi di produzione che questo gruppo sperimenta, provengono da un'eredità che assomma senza demagogia le indicazioni delle avanguardie storiche. Infine, perché anche quando divenisse virtuale, la tensione alla libertà e alla sovversione che vive nel cuore di tutti i popoli, ma non in quello dei loro governanti, tornerà sempre ad essere reale sulle barricate. Si può dissertare all'infinito sul significato della parola libertà. Si può dire che di libertà ce ne sono tante perché tante sono le prigioni... ma quando sento le voci di giovani uomini e donne che gridano "libertà, libertà!" mentre la polizia li manganella in piazza, mi prende una commozione forte che ritrova tutto intero il desiderio di vivere di quelli che sono imprigionati nella camicia di forza del potere che si consolida nella misura in cui nega l'espandersi naturale della vita. Grida pronunciate da un vento di rivolta che mi spalanca all'improvviso ricordi di un passato dove milioni di sfruttati, quelli che costruiscono il mondo, venivano incatenati e picchiati da quelli che glielo rubano. E adesso, pensavo, ci risiamo. Eccoli i servi del potere intenti a tirare lo spago delle marionette che manganellano, i brutti mezzibusti truccati in tv da persone perbene, che arricciano il naso infastiditi se qualcuno parla dei grandi sogni, degli slanci, della vitalità, della gioia... e che ci descrivono tutta la vita come una malattia da curare, il crescere come una successione di reati da punire... eccoli che ricicciano coi loro cavilli e capoversi, con le loro campagne elettorali per vendere prigioni e manicomi, che sbavano odio razziale e propagandano lager, che ci consigliano di ingoiare merda e respirare veleni, i loro.
E' su questo che fanno i loro affarucci, che fondano le loro promozioni, gli scatti di carriera, gli aumenti di stipendio... pensavo a questo schifo guardando "ocse fuck off", il documento che i ragazzi di Visual City Virus ci hanno portato, registrato a Bologna in giugno, nelle giornate in cui l'ocse, la sedicente organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico che decide dove passeranno i flussi monetari sul pianeta, decretando quali popoli potranno essere in buona salute e quali creperanno di aids o di infezioni intestinali, quali avranno la possibilità di sfruttare e opprimere e quali dovranno rimanere nei campi di concentramento, quali avranno "diritto all'accesso" e quali rimarranno per l'eternità a chiedere l'elemosina ai ricchi, aveva organizzato una tavola rotonda in tutta discrezione (ma un giornale economico aveva pubblicato la notizia!) e facendosi comunque proteggere (non si sa mai!) da quattromila poliziotti. Durante quelle giornate a Bologna si concentrano pure parecchi contestatori, centri sociali... le culture emarginate, antagoniste, quelli del teatro occupato, le radio di movimento, i digei, i fotografi... e un manipolo molto nutrito (venti? trenta?) di videoteppisti che filmano tutto quello che succede. Vedi Bifo che si spoglia nudo e propone alle telecamere salari uguali per tutti anche nel terzo mondo, tra poliziotti perplessi che non riescono a classificare il reato (sarà uno streaptease che vi seppellirà) ma che comunque si danno da fare con le mani guantate davanti agli obiettivi per censurare un pò, vedi disk jockey che avanzano su un camion-gru che pompano onde di suono roboante nei cortei, vedi che mentre la polizia circonda le strade del centro i contestatori ballando ballando circondano la polizia, e ai poliziotti un mimo-orso mostra il culo ma qualcun altro offre fiori come usavano gli hippies al Pentagono e vedi qualche fessura che si apre fra gli scudi schierati perché in fondo Bologna è una città ad alto civismo e un fiore non si rifiuta, ma poi cominciano le botte! e non sono manganellate democratiche! Inefficaci però, per il fatto che piovono su corazze di gomma gonfiata, (invenzione e creatività dei frikkettoni!) che come uno sberleffo rimbalzano al mittente l'ossessione coatta del percuotere che, come i diktat, la pubblicità e la battitura delle sbarre della prigione, sembra il solo metodo che il potere di questi giorni preferisce e perpetua. Vi ricordate Thompson? "la lotta operaia è un passo di danza della liberazione, un happening creativo..." Uomini e donne di qua; dall'altra parte della barricata mostri. Ma quello di cui mi premeva mettervi al corrente è il metodo col quale l'informazione è stata fatta: ogni volta che veniva registrato materiale interessante su quello che avveniva per le strade, cinque, dieci videoteppisti correvano in non so quale casa dove li aspettavano quelli del VCV.
Montavano insieme rapidamente il documento girato da quei cinque o dieci, lo codificavano perché fosse possibile trasmetterlo per internet e lo spedivano in rete. Tutto il mondo ha potuto vedere quello che l'ocse di certo non avrebbe voluto che si vedesse mai, con aggiornamenti ripetuti una quindicina di volte nella stessa giornata. Il sogno di Dziga Vertov si realizzerà ogni giorno di più, man mano che la creatività dei pirati informatici sarà capace di galoppare sull'ultima novità messa sul mercato dai padroni elettronici del pianeta.
Devo ricordare che durante gli anni '70, e poi fino al tempo in cui documentavamo lo sgombero del Leoncavallo, il problema principale era quello della distribuzione. Televisioni blindate, cinema prenotati da anni dalla programmazione dei film americani... la censura massmediatica era quasi inattacabile, a parte le volte che intervenivano "i grandi avvocati" della difesa come Dario Fo e Franca Rame, che aprivano le porte della tv riconducendo però i problemi dei centri sociali alla ritualità spettacolare. Noi stessi usavamo ancora le videocamere come qualcosa che sostituiva la vecchia macchina da presa, a parte le considerazioni sull'abbassamento dei costi che proporzionalmente apriva spazi di libertà d'informazione, perché le prospettive distributive non erano fondamentalmente dissimili... si poteva proiettare pellicola in un cinema d'essai, o un nastro alla tv o nei monitor di un centro sociale... Ma le reti telematiche e la possibilità di codificare il segnale video per essere trasmesso, aprono dimensioni assai diverse. Mai come oggi le tecnologìe comunicative, videocamere e computer, sono state simili al sistema occhio-cervello: i pixel del ccd come i fotorecettori retinici, gli integrati dei computer come i sistemi neuronali.
Con mio figlio, qualche anno fa, avevamo messo in rete le urla dei maiali elettrificati e sgozzati in un mattatoio. Contro la presunzione che il denaro ha di semiotizzare tutto l'esistente nella ridondanza elettronica di quel mercato che è internet, noi immettevamo il rumore di fondo del dolore e dello sfruttamento.
Aldo Braibanti mi spiegava che le formiche hanno la capacità di unirsi in una super-unità, formata anche da venti milioni di individui, disponendosi fra loro secondo un disegno simile a un grosso centro nervoso, producendo, esperienza a noi sconosciuta, un pensiero collettivo. Spesso sono tentato di immaginare la struttura delle reti telematiche (quelle che attualmente permettono l'invisibilità alla mondializzazione del capitalismo) "detournata" dalla sovversività e dalle tensioni della controcultura, dove l'intelligenza alternativa che oggi occupa le piazze e le "aree dismesse", sia capace di occupare le reti planetarie a un livello più alto e formare un corpo collettivo capace non solo di lottare contro il lavoro salariato e contro lo sfruttamento, ma anche capace di configurare una nuova coscienza antagonista a quella denaro-centrica, che si abitui a considerare il nostro pianeta come una creatura vivente formata da condizioni biologiche e libido differenti fra loro, tante quante sono le innumerevoli forme di vita che ne costituiscono la totalità dell'esistenza.
Alberto Grifi