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Su Alberto

Adriano Aprà

Incontro con Adriano Aprà

di Marco Di Porto

Adriano Aprà, docente di cinema all'Università Tor Vergata di Roma e tra i primissimi, in Italia, ad occuparsi di linguaggi "altri" da quelli del cinema classico, conobbe Albero Grifi da vicino. Di Grifi pressoché coetaneo, Aprà ebbe un ruolo centrale nel successo di Anna, il più noto - e forse anche il più importante - film di Alberto Grifi. Ci siamo fatti raccontare come andarono le cose.

Lei fu tra i primi, in Italia, a interessarsi dei nuovi linguaggi del cinema sperimentale. E dunque il suo percorso, quasi automaticamente, si incrociò con quello di Alberto Grifi. Ci racconta come venne a sapere del suo lavoro?
Il mio primo contatto con il cinema sperimentale avvenne al festival di Pesaro del 1967, dove organizzarono una delle primissime rassegne di cinema "underground", e a Napoli, dove andai a presentare il primo numero della rivista che avevo fondato, "Cinema e film". Lì potei vedere i lavori di Adamo Vergine, che mi sopresero: era un genere di produzione, per quegli anni, assolutamente inedita, che in quel periodo cominciarono a proiettare anche allo storico Filmstudio, che divenne un po' la mia seconda casa.
Quando poi io e Enzo Ungari prendemmo in mano, appunto, il Filmstudio, ci si riuniva spesso per vedere e scegliere film sperimentali da proiettare; e durante una di quelle "sedute" venne anche Alberto Grifi. Era, credo, il '71.
Nacque tra noi una simpatia immediata. Durante una di quelle serate conviviali e cinematografiche, a casa di Gianni Amico, Alberto portò con sè dei nastri da ¼ di pollice e ce li mostrò: era il registrato grezzo di "Anna".

Lei abbe un ruolo rilevante nel successo di "Anna".
Sì, beh, le cose andarono così: quella sera guardammo varie ore del registrato di Anna, e poi suggerimmo ad Alberto di montare il materiale. Cosa che lui, almeno inizialmente, sembrava non avere intenzione di fare. Ma poi invece cambiò idea, seguì il nostro consiglio e dopo qualche tempo venne a mostrarci la versione montata del film. Mi piacque tantissimo e a quel punto feci da intermediario con Ulrich Gregor, l'allora direttore del Forum di Berlino, la sezione del Festival di Berlino dedicata al cinema "non classico", a cui dissi: "ho visto un capolavoro". Ma questo capolavoro era in video, e bisognava trasferirlo in pellicola.
Allora Gregor, fidandosi del mio parere, decise di sovvenzionare, con due milioni di lire, il trasferimento di Anna da "analogico" a 16 millimetri. Cosa che Alberto fece con una delle sue famose macchine, il vidigrafo, che io avevo ribattezzato affettuosamente il "vidigrifo". Così il film, nel luglio 1975, potè essere proiettato a Berlino, con i sottotitoli in tedesco.

Poi il film approdò anche a Venezia.
Sì, la cosa andò in modo simile. Anche qui mi impegnai nella promozione di Anna, parlandone con Giacomo Gambetti, l'allora direttore della rassegna, che sotto la sua direzione, tra il 1974 e il 1976, fu una grande vetrina per il cinema sperimentale. Anche Gambetti si fidò del mio consiglio. Proiettarono dunque il film a Venezia e Anna riscosse un grande successo. Per la prima volta, la stampa parlò di cinema sperimentale, un argomento che sui giornali veniva tralasciato anche dai critici.
Ho rivisto "Anna" di recente e l'ho trovato, ancora una volta, straordinario. Era un film nostro, aveva a che fare con noi, con come eravamo allora e oggi mi sembra il documento storico di un'epoca. In questa cronaca di fatti quotidiani percepisco una coscienza di quel che eravamo, che all'epoca forse non percepivo perchè vi ero immerso. E' un film fondamentale, un capolavoro del cinema italiano.

"Mi sembrava che si potesse fare una cosa ben diversa, più importante e necessaria: capire che cosa succedeva nella testa di quei compagni che scendevano in piazza..." Questo disse Alberto Grifi in un appassionato intervento alla rassegna Batik di Perugia nel 2000, riportato di recente anche nello speciale di Alias a lui dedicato. Sembra quasi una dichiarazione di intenti.
Il cinema di Alberto aveva due anime: quella documentaristica, che io prediligo, e quella della sperimentazione. Una parte del suo lavoro è "cinéma vérité", documenta la realtà di quegli anni. Ho visto di recente un lavoro di Alberto forse meno conosciuto, "Lia". E' l'estratto di una manifestazione: un piano sequenza, su una ragazza che interviene in un dibattito, di una forza straordinaria. Nel momento in cui Alberto isola Lia dal contesto, quella ragazza diventa emblematica di un'intera epoca.
Ma la parte sperimentale della sua produzione è molto importante: film come "Trasfert per camera verso Virulentia" o "La verifica incerta" sono lavori che rimangono nella storia del cinema sperimentale, operazioni di grande intelligenza.

Quest'anno si celebreranno (e probabilmente ci tormenteranno) con il quarantennale del 1968, il cui aspetto appunto celebrativo e di "merchandising" fa già di per sé a pugni con lo spirito rivoluzionario di quegli anni. E si fa largo sempre più, specie sulla stampa di destra ma non solo, la tentazione di sminuirne il valore. Cosa rimane di quella stagione?
Oggi i giovani sono isolati, senza un terreno di cultura comune, che invece noi avevamo. La mia generazione si sentiva parte di qualcosa che ci "apriva la mente". I miei studenti hanno un rispetto enorme per l'autorità, compresa la mia, che sono un professore… sembrerebbe che questi ragazzi siano pronti a qualsiasi compromesso, pur di sopravvivere, pur di guadagnare. E non credo siano meno intelligenti di noi: è che mancano loro le condizioni per esprimersi in modi e forme diverse.
Cosa rimane del '68? Per esempio la figura di Alberto Grifi. Il suo lavoro e la sua vita sono oggetto, a partire dagli anni '90, di un grande interesse da parte dei giovani, quasi fosse una specie di modello, o di eroe, per questa generazione di "orfani"… nella sua figura si è in parte concentrata la nostalgia delle nuove generazioni per qualcosa che avrebbero voluto, ma che non riescono ad essere. Anche se si è parlato ancora poco, da un punto di vista critico, dei suoi film.